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Recupero crediti e messaggi su WhatsApp, perché no?

Pubblicato il 29/09/2021

recupero creditiQuando si parla di recupero crediti non è sufficiente affermare “Tizio mi deve dei soldi“!
Se intendiamo affidarci ad un legale perché agisca per recuperare un nostro credito, infatti, serve ben altro, ossia è necessario fornire la prova del nostro diritto a essere pagati.
Gli strumenti che abbiamo a disposizione sono molteplici e diversi, ma ci dedicheremo in questo articolo ad un tipo particolare di prova, ossia quella che possiamo ottenere direttamente dal nostro cellulare o dai social.

 

Recupero crediti e promessa di pagamento via Whatsapp

Per il recupero crediti la procedura alla quale generalmente si fa ricorso è quella del decreto ingiuntivo, il provvedimento con il quale il giudice ordina al debitore di pagare entro un termine di 40 giorni: affinché il giudice emetta tale decreto è, però, necessario fornirgli la prova scritta del diritto di credito fatto valere.

L’espressione “prova scritta” è facilmente comprensibile, ma la giurisprudenza ne ha allargato il concetto anche sulla base della considerazione del crescente utilizzo di strumenti di messaggistica elettronica (ad es., Whatsapp, sms, email). In particolare, è ormai riconosciuto il fatto che i messaggi WhatsApp contenenti una ricognizione di debito e promessa di pagamento sono strumenti idonei per la concessione di un decreto ingiuntivo.

La giurisprudenza ha stabilito, infatti, che

l’Sms o l’email costituiscono documenti elettronici che contengono la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privi di firma, rientrano tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. con la conseguenza che formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale vengono prodotti non ne contesti la conformità ai fatti o alle cose medesime.
(Cass. 21 febbraio 2019, n. 5141; Cass. 17 luglio 2019, n. 19155; Cass. 14 maggio 2018, n. 11606)

Questo altro non significa che i messaggi scambiati tramite WhatsApp o altre applicazioni sono idonei a costituire idonea prova scritta per la concessione del decreto ingiuntivo.

È stato infatti riconosciuto che tali messaggi soddisfano i requisiti, appunto, della prova scritta richiesta dall’art. 633 c.p.c. proprio per tale decreto (“Su domanda di chi è creditore di una somma liquida di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili, o di chi ha diritto alla consegna di una cosa mobile determinata, il giudice competente pronuncia ingiunzione di pagamento o di consegna: 1) se del diritto fatto valere si dà prova scritta (…)“.

Il successivo art. 634 c.p.c. prevede inoltre che sono considerate prove scritte idonee a norma del n. 1) dell’art. 633 c.p.c. le polizze e promesse unilaterali per scrittura privata e i telegrammi, anche se mancanti dei requisiti prescritti dal codice civile.

Dunque, le conversazioni e chat intrattenute su Whatsapp o su altra applicazione di messaggistica possono ben essere prodotte in giudizio come prova per l’emissione di un decreto ingiuntivo. È bene precisare, però, che tali messaggi non soddisfano i requisiti per la concessione della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo emesso, dal momento non possono essere considerati come documentazione sottoscritta dal debitore, stante la loro “ignota provenienza”, non garantendo alcuna certezza circa la reale identità del mittente.